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Speciale Pisa i pisano
di Lea Mattarella
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Con quello del Battistero (di
Nicola) si inizia una svolta che si completa con quello del
Duomo (di Giovanni).
Una grande stagione dell’arte.
Per secoli l’arte italiana ha mantenuto un indiscusso primato
nel mondo. La conquista di un linguaggio così denso di
bellezza e di carica innovativa da diventare dominante, si fa
risalire di solito al Rinascimento, o poco più indietro, alle
grandi scoperte di Giotto, che avrebbero cambiato il corso
della pittura per sempre.
In realtà, se ci si riflette bene, le tracce di una grande
svolta, di un reale cambiamento e la nascita di un linguaggio
tipicamente italiano nel fare artistico, appartengono già ad
un momento precedente. E prima di essere sviluppata dalla
maestria dei pittori fiorentini, la sconvolgente rivoluzione
di immagini e stili, passa per lo scalpello di uno scultore,
pugliese di origine e pisano di adozione.
È a Pisa che succede tutto. Perché qui si crea una
straordinaria comunione tra il talento dello scultore “Nicola
de Apulia” e la città marinara che lo accoglie. Quella fusione
tra genio individuale e ambiente, fondamentale perché le cose
accadano.
L’artista arriva a Pisa dalla Puglia. Lo sappiamo perché prima
di firmarsi con il nome con cui è celebre nel mondo, Nicola
Pisano, si firma “Nicola de Apulia”. Ma lo sappiamo anche
perché la sua cultura visiva è densa di riferimenti classici,
di citazioni e allusioni alla scultura antica. E questi
impulsi gli derivano dall’ambiente meridionale, dalle
maestranze che lavorano a Castel del Monte e negli edifici
voluti da Federico II, alla corte del quale si rivaleggiava
con la grandezza dell’impero romano, anche per mezzo della
cultura letteraria, figurativa, filosofica. Quindi la
formazione di Nicola (di cui si ignora la data di nascita che
si suppone intorno al 1220) è all’insegna dell’antichità: il
suo sguardo si nutre di proporzioni e di panneggi, va alla
ricerca delle vestigia del passato e su queste stabilisce i
suoi canoni. E quando arriva a Pisa trova la conferma che il
suo modo di guardare è quello giusto. I pisani infatti da più
di cento anni raccoglievano memorie di storia antica. Nei
marmi classici cercavano le radici culturali del loro presente
fieramente comunale e ghibellina. Nella cattedrale questi
reperti venivano addirittura esibiti, come testimonianza delle
origini grandiose della città di Pisa. E se dobbiamo credere a
Giorgio Vasari, autore nel Cinquecento delle Vite degli
artisti, inizio di una moderna concezione di critica d’arte,
sembra che alcuni di questi sarcofagi, iscrizioni, frammenti
di sculture fossero addirittura frutto di una ricerca fuori
dai confini pisani; insomma oggetti di importazione.
Comunque Nicola li vede e li studia. E così succede all’arte
figurativa qualcosa di simile a ciò che avviene alla poesia: i
semi gettati nell’Italia meridionale fioriscono in Toscana. E
il primo fiore è di marmo: è il pulpito del Battistero di
Pisa, un capolavoro a cui Nicola Pisano lavora dal 1255 al
1260.
Immediatamente questo artista potente e solenne fa sue le
fonti classiche: trasforma la figura di Dioniso sorretto da un
satiro, che ha visto in un vaso antico conservato al
Camposanto, in Simeone che assiste alla presentazione di Gesù
al tempio. E anche la maestosa Madonna della Natività sembra
derivare direttamente dai sarcofagi etruschi e romani, mentre
la Fortezza è rappresentata con le sembianze di un Ercole
nudo.
Nicola però fa qualcosa di più di una semplice operazione di
recupero. Restituisce a queste figure una specie di verità e
crea un’armonia infallibile tra la struttura architettonica
del pulpito e la decorazione che lo copre. Un rapporto così
felice tra architettura e scultura, si era visto soltanto
nelle cattedrali gotiche francesi, tanto che molti studiosi
hanno ipotizzato una visita di Nicola nei cantieri delle
grandi opere d’Oltralpe, oltre al consueto viaggio a Roma. Non
si sa se questo sia vero oppure no. Sappiamo però che con il
pulpito pisano ha inizio la grande stagione dell’arte
italiana; da questo momento l’idea delle giuste proporzioni,
la ricerca spaziale, il movimento, il sentimento della realtà
entrano prepotentemente a far parte del linguaggio figurativo
occidentale. E gli anni tra il 1260, data in cui Nicola
licenzia quest’opera, e il 1300, quando Giotto ha ormai
terminato le sue Storie di san Francesco ad Assisi, sono
quarant’anni decisivi per l’arte italiana. Perché se è vero,
come scrive la grande scrittrice Marguerite Yourcenar, che
“dal giorno in cui una statua è terminata, comincia, in un
certo senso, la sua vita… attraverso l’alternarsi di
adorazione, di ammirazione, di amore, di spregio o di
indifferenza…”, l’esistenza della grandiosa opera di Nicola
comincia a farsi strada un po’ dappertutto.
La bellezza dei rilievi con la Natività, l’Adorazione dei
Magi, la Presentazione al tempio, la Crocifissione, il
Giudizio finale, la loro vivacità narrativa, la solennità
delle figure che simboleggiano le virtù poste agli angoli
della struttura, consentono a Nicola di ricevere molte altre
commissioni: va a Siena, a Perugia, a Pistoia, a Bologna.
Vasari ce lo tramanda anche come uno degli architetti più
ricercati del suo tempo, ma purtroppo non possiamo legare il
suo nome a nessun edificio medioevale. Comunque l’artista
viaggia e diffonde la sua lingua che unisce il rigore classico
all’eleganza gotica. E con sé porta i suoi allievi, il più
importante dei quali è il figlio Giovanni. Che raccoglie
l’eredità di un padre così ammirato da rischiare magari di
diventare ingombrante, e la fa diventare un tesoro.
Neanche di Giovanni conosciamo la data di nascita che si pensa
si possa situare tra il 1245 e il 1248, visto che nel ’65
partecipa con il padre al pulpito del Duomo di Siena. Il luogo
in cui l’evento accade è invece sicuramente Pisa.
A Pisa Giovanni lavora alla decorazione delle figure esterne
del Battistero, ma alla morte del padre, nel 1284, eccolo
abbandonare la città per recarsi a Siena dove lascia diversi
capolavori.
Quando ritorna nella sua città il confronto con Nicola diventa
diretto. Anche a lui, infatti, viene commissionato un pulpito,
questa volta per il Duomo. E se Nicola aveva rivoluzionato
questo oggetto, che prima era addossato alla parete e quadrato
o rettangolare, isolandolo e ammorbidendone le forme in un
esagono, Giovanni va ancora più avanti. Non ci sono spigoli
nella forma perfetta di questo pergamo ottagonale, in cui le
superfici della balaustra si incurvano dolcemente e tutto
viene ricondotto in un’ideale circolarità. E le storie che
Giovanni racconta sono vitali e piene di energia. Le sue
figure sono il frutto di un’attenta osservazione della verità
di gesti e atteggiamenti. I volti che scolpisce esprimono
sentimenti differenti, caratteri e reazioni individuali. Ci
sono momenti indimenticabili come l’angelo che scuote con foga
il vecchio addormentato della Fuga in Egitto o la torsione dei
corpi che si passano il bambino, di cui sembra di sentire il
peso, nella Presentazione al tempio. Tutta la superficie è
riccamente scolpita in ogni angolo, le figure sono allungate
verso l’alto, mobili, sicure nei movimenti. Non vi è un attimo
di sosta, gli avvenimenti si susseguono con un ritmo intenso e
vibrante e la linea curva che domina l’insieme crea una
luminosità mai vista prima.
E se questo non bastasse a inserire Giovanni tra i grandi
della scultura di tutti i tempi, sarà una visita al Museo
dell’Opera del Duomo a sciogliere ogni dubbio. Qui sono
conservati alcuni esempi del soggetto più amato da questo
grande maestro: la Madonna con il bambino. Nelle sculture di
Giovanni, Maria e Gesù si guardano, parlano, comunicano come
una madre e un figlio qualsiasi. Il piccolo è sereno, ma la
mamma, che ne conosce il destino, mantiene un’aria
malinconica. È una Maria umanizzata quella che ci arriva da
questo gotico torcersi di corpi, da questo intimo e mesto
gioco di sguardi. Sorella della Vergine cantata in versi da
Fabrizio De Andrè nella Buona Novella: una donna titubante che
finisce per accettare, fiduciosa e rassegnata, un destino
molto più grande di lei.
Lea Mattarella, critico d’arte, insegna a
Brera
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