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Un miracolo
tira l’altro
di Lucia Capitani
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Quello
che oggi ci appare come un geniale museo a cielo aperto
è, in realtà, il frutto di una complessa stratificazione
storica ed artistica.“L’Ardea
roteò nel cielo di Cristo, sul Prato dei Miracoli. Sorvolò
le cinque navi concluse del Duomo, l’implicito serto del
Campanile inclinato sotto il fremito dei suoi bronzi,
la tiara del Battistero così lieve che pareva fosse per
involarsi gonfia di echeggiamenti”.
Così D’Annunzio nel romanzo Forse che sì, forse che no
descrive la visione che si offre ai due amanti in volo
su Pisa a bordo dell’aeroplano “Ardea”: la Cattedrale,
il Campanile, il Battistero, fiancheggiati dal Camposanto,
quasi trasparenti alabastri risplendono al tramonto di
una “luce mistica” e suggeriscono al poeta il nome evocativo
di “Prato dei Miracoli”, passato poi nell’uso comune come
Piazza dei Miracoli.
L’armonia di tale spazio è così perfetta che siamo portati
a credere che le bianche architetture siano nate tutte
insieme quasi appoggiate sul verde del prato e a fare
nostra la suggestione di Melville che alla fine dell’Ottocento
scriveva: “I quattro monumenti si fondono in uno solo
- erba. Nasce dal terreno. Viene su di essi come un fascio
di fiori che coroni l’architettura”. Anche l’architetto
razionalista Le Corbusier non si sottrae al fascino di
questa eterna unità: “Il quadro sarà bello domani, tutto
di marmi meravigliosamente ingialliti, conservati impeccabilmente
e innalzati in prato verde. E la torre pendente non mi
ha preoccupato affatto questa sera. [...] Al contrario
trovo tutto ciò una manifestazione di genio e un blocco
eloquente”.
Ma la piazza del Duomo come la vediamo è il frutto di
una serie di stratificazioni storiche e ha assunto l’aspetto
attuale solo in età moderna.
Quando nel 1064 fu fondata la nuova Cattedrale, diciassette
secoli di storia avevano già lasciato qui la loro impronta
riportata alla luce dagli scavi che a partire dal 1949
hanno restituito le tessere sparse di un grande mosaico,
dal periodo etrusco a quello romano, quando Pisa, allora
sul mare, era già un porto attivo come testimonia l’eccezionale
scoperta archeologica delle navi romane non lontano dalla
piazza. L’area scelta dai canonici dell’Opera del Duomo
fu la stessa su cui sorgeva una precedente Cattedrale
paleocristiana con il suo Battistero: una zona allora
esterna alla città costeggiata dall’Auser, l’antico affluente
dell’Arno, oggi scomparso, che offriva una difesa naturale
allo spazio sacro e soprattutto era la via di trasporto
per i marmi del Monte Pisano con cui furono costruiti
i principali edifici della piazza.
La nuova Cattedrale divenne il simbolo della potenza di
Pisa che, al culmine delle sue fortune marittime e commerciali
a seguito delle vittorie sui saraceni, è il centro più
importante del Mediterraneo occidentale. I segni di questa
storia si leggono nell’edificio stesso: sulla facciata
una prima iscrizione introduce alle glorie militari dei
pisani - di cui il grifo arabo in bronzo che trionfa sulla
zona absidale è la più evidente testimonianza - mentre
l’epigrafe di fondazione ricorda il favoloso bottino del
saccheggio di Palermo che permise di avviare la nuova
costruzione.
Altre due iscrizioni nominano gli artefici: Buscheto, il cui sarcofago è murato in facciata, è il
nuovo Dedalo che realizzò l’impianto originario della
chiesa tra il 1064 e il 1110, e Rainaldo è l’“oculato
Operaio e
Capomastro” responsabile del prolungamento delle
navate e della facciata intorno alla metà del XII secolo.
Altri marmi della Cattedrale, capitelli antichi e frammenti
di età romana reimpiegati nelle mura, sono segno tangibile
di Pisa “novella Roma” e la ricchissima decorazione dell’abside,
illuminata da colorate tarsie e arricchita dalla famosa
porta di Bonanno, indica come questa parte dell’edificio,
la prima ad essere costruita, fosse l’inquadratura privilegiata
per chi entrava da via Santa Maria, cioè dalla città.
Una volta innalzato il circuito murario che dalla metà
del XII secolo difendeva la Cattedrale, gli ingressi alla
piazza non vennero scelti casualmente, furono anzi così
meditati che individuarli e rintracciare i percorsi che
proponevano consente di cogliere appieno il senso e la
storia di questo complesso monumentale in cui la città
da sempre si è identificata.
La
prima porta, custodita
dal fiero sguardo di un leone marmoreo da cui prese il
nome, offriva l’immediata visione della ricca facciata
di Rainaldo, vero e proprio manifesto figurato e scritto
della nobiltà di Pisa, e del Battistero fondato nel 1152
in asse con il duomo e ad esso legato da rapporti proporzionali
e dal sistema decorativo con le caratteristiche loggette
e le fasce bicrome. Sullo sfondo era destinato ad emergere
il Campanile che, iniziato nel 1173 in armonia con il
linguaggio delle precedenti architetture, tuttavia raggiungerà
il settimo ordine solo nel 1298 a causa della pendenza
che ne condizionò e rallentò il compimento.
Ma
a questo nuovo spazio, già definito dai tre prestigiosi
monumenti e dalle mura, mancava ancora qualcosa per divenire
una vera a propria piazza. Verso la fine del Duecento
si costruiscono così due edifici paralleli che vengono
a delimitare l’area a nord e a sud: l’Ospedale e il Camposanto,
una chiesa cimiteriale chiamata a svolgere l’essenziale
funzione di pio ricovero per le sepolture - sarcofagi
romani usati come tombe di pisani illustri - sparse fin
dalle origini attorno alla Cattedrale e ormai considerate
elemento di disturbo.
Il
Camposanto, terminato solo alla fine del Trecento con
gli affreschi dei maggiori artisti del tempo, dopo una
stasi dovuta alle lotte contro Firenze, fu completato
con le storie bibliche dipinte tra il 1467 e il 1484 da
Benozzo Gozzoli su commissione dei nuovi signori, i Medici,
che con aspra battaglia si erano impadroniti di Pisa.
A
questo stato di soggezione
non si intonava più l’entrata principale rivolta all’orgoglioso
manifesto della facciata del duomo: ecco allora che si
apre Porta Nuova la quale, dominata dallo stemma mediceo,
crea un’inedita prospettiva sulla “scena” della piazza
inquadrando il neo-edificato Palazzo Arcivescovile.
Dietro
il Campanile, cinto da una balaustra in marmo che ne celava
lo sprofondamento della base, si allineavano come una
quinta la chiesa di San Ranierino, la Casa dei curati
e la Casa dei canonici, in perfetto stile fiorentino,
ma l’area si affollava anche di costruzioni destinate
ad usi assai più umili: la Dogana, sede dei gabellieri
che controllavano i traffici e le imposte, la Casa dell’ortolano
e perfino, dal 1746, la Casa del becchino nella zona tra
il Camposanto e le mura.
Tuttavia nell’Ottocento, in ossequio ad un medioevo idealizzato
come “Risorgimento delle arti” e assunto come simbolo
di identità civile e politica, Pisa volle restituire alla
piazza il suo presunto assetto originario: una apposita
“Commissione per gli abbellimenti” procedette a restauri,
integrazioni e rifacimenti in stile delle “quattro insigni
fabbriche”, ma soprattutto eliminò gli edifici che ad
esse si erano aggiunti nei secoli, isolando i monumenti
e cancellando ogni traccia degli usi funzionali e quotidiani.
Alla percezione aulica dello spazio ritrovato, cui contribuiva
in modo determinante il nuovo tappeto uniforme del prato,
serviva ora un nuovo ingresso: dopo via Santa Maria,
Porta
del Leone e Porta Nuova si aprì una strada - via Torelli,
oggi via Cardinal Maffi - che raggiungeva il Campanile
dal retro per inquadrarlo suggestivamente nel punto di
massima pendenza.
Gli
interventi ottocenteschi hanno dunque formato l’immagine
della piazza che oggi conosciamo, avviando quel processo
di “musealizzazione” che sarà definitivo nel XX secolo:
già nel 1845 Charles Dickens descriveva il complesso come
“l’essenza architettonica di una ricca città antica, da
cui sian tolte le abitazioni dei privati e tutto ciò che
costituiva la vita ordinaria”. In questo museo a cielo
aperto, che ospita a sua volta il Museo delle sinopie
- dal 1979 nell’antica sede dello Spedale - e il Museo
dell’Opera del Duomo - dal 1986 nel palazzo che un tempo
serviva da seminario -, i quattro monumenti sono percepiti
quasi esclusivamente come capolavori d’arte.
La
piazza,
considerata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, ha conservato
tuttavia il suo ruolo istituzionale e celebrativo: là
dove nel 1312 l’imperatore Arrigo VII ricevette la professione
di fedeltà del libero Comune di Pisa e dove il suo corpo
verrà trasportato in processione funebre per raggiungere
il sepolcro in Cattedrale, ancora oggi si svolgono le
funzioni solenni della Chiesa, si accolgono le visite
dei pontefici e con gli stessi rituali rivivono le feste
tradizionali della città. Diversa è la vita quotidiana
in piazza: a chi, fin dal Trecento, sui gradini della
Cattedrale abusivamente batteva il grano o trafficava
con la vendita delle candele, al viaggiatore solitario
dell’aristocratico Grand Tour che contemplava il “miracolo”
dei monumenti, si è sostituito il flusso ininterrotto
dei turisti, spesso attratti principalmente dalla celebrata
stravaganza della Torre.
Lucia Capitani, storico dell’arte
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