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Sentirsi
eredi e rivali della città eterna
di Clara Baracchini
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L’arte pisana dell’XI e XII
secolo richiama ed arricchisce
la grande tradizione classica, specialmente nella scultura
e nell’architettura. La storia narrata nel marmo e nel bronzo.
A Pisa va riconosciuto il merito di avere dato un contributo
fondamentale sia ad una peculiare interpretazione di quella
che Vasari definiva la “maniera greca”, cioè bizantina, sia,
soprattutto in scultura, alla creazione della nuova “maniera
latina”: è un percorso lungo e complesso che trova le sue
radici nella storia stessa della città lanciata alla conquista
del Mediterraneo e nel formarsi, tra XI e XII secolo, di una
romanitas pisana.
In
questi anni infatti Pisa dimostra, con la sua scultura, con
la sue architetture e con i suoi carmi, anche direttamente
incisi sulla superficie marmorea della cattedrale, di sentirsi
erede di Roma: con essa anzi rivaleggia, lei vincitrice degli
arabi come Roma lo fu dei Cartaginesi, riconoscendosi in un
passato che vive come presente. Lo provano le opere (architravi
e capitelli, formelle e transenne scolpite su modelli classici
alternati ad elementi estratti dalle rovine stesse dell’antica
capitale), lo attestano i documenti, lo conclamano i sarcofagi
di età romana reimpiegati come sepoltura per cittadini illustri
- un fenomeno invero non solo pisano, ma a Pisa più notevole
che altrove per frequenza e impatto. E se, accanto a questi
simboli, la Cattedrale innalzava anche le spoglie delle vittorie
sugli infedeli (ma con questi manteneva pacifici traffici,
come attestano gli oltre 600 bacini ceramici islamici che
decorano le sue chiese) e ne reinterpretava le forme architettoniche
e scultoree, è comunque la linea dell’interesse per l’antichità
classica che sta alla base degli ulteriori sviluppi della
scultura pisana.
Rinasce
infatti a Pisa, con Guglielmo e con Bonanno, la storia narrata
nel marmo e nel bronzo. Al primo, che orgogliosamente firmava
il primo pulpito realizzato per la Cattedrale tra il 1158
e il 1162 (ora conservato nel Duomo di Cagliari), si deve
infatti la ricomparsa della narrazione e della scultura a
tutto tondo, subito riproposte in numerose chiese cittadine
e del contado, e dal secondo declinate, nei battenti bronzei
della cattedrale, con la conoscenza delle fonti bizantine
- la stessa che ritroviamo nella scultura e nella pittura
pisana del filone così detto neoellenico: colonne fogliate,
architravi, bassorilievi che vanno a decorare le facciate
delle chiese, ma anche icone e croci dipinte. Né poteva essere
diversamente dal momento che, dopo la partecipazione alla
prima crociata (1096-1099), Pisa trovò nuovi sbocchi commerciali
nel rapporto privilegiato con Bisanzio, riconosciuto nell’eccezionale
onore di vedere un proprio arcivescovo e capo politico elevato
a patriarca del regno crociato di Gerusalemme, e ribadito
nei vantaggiosi trattati sanciti tra il 1111 e il 1180.
Il mirabile equilibrio raggiunto dalla pittura pisana è però
messo in crisi dalla radicale rivoluzione che viene a premere
sul mondo cristiano: la predicazione di Francesco d’Assisi.
Il suo ricondurre, con inaudita forza, il fuoco dell’attenzione
sul Cristo, la nuova tecnica devozionale che invitava a pregare
“con la mente e non con le labbra”, usando anzitutto il liber
Crucis Christi, portava ad una altrettanto radicale innovazione
nelle arti figurative. E sarà il pisano Giunta ad essere chiamato
a rappresentare (1236), anche per la nuova basilica di Assisi,
il nuovo Cristo sofferente, con il corpo inarcato negli spasimi
dell’agonia. In questa rinnovata liturgia della croce trovano
spiegazioni le grandi e complesse Deposizioni scolpite in
legno: la più antica era forse quella che dominava nell’abside
della Cattedrale (ne rimane solo il Cristo, ora nel Museo
dell’Opera); alla prima metà del Duecento sono attribuite
quella, che conta ancora sette personaggi, conservata nella
bella pieve di Vicopisano, quella di Volterra, dalla preziosa
e intatta policromia, quella di San Miniato, recentemente
recuperata da un attento restauro. Ma intanto a Pisa era accaduto
qualcosa che avrebbe inciso sul destino della scultura italiana:
attorno al 1260 vi si stabilisce (tanto che si definisce egli
stesso pisano) un geniale scultore, originario della Puglia
e cresciuto alla corte di Federico II, Nicola. A lui, ai primi
tra tutti i suoi allievi, il figlio Giovanni e Arnolfo di
Cambio, e agli allievi di questi si deve la rifondazione della
scultura: il definitivo abbandono della maniera bizantina,
nel solco della rinnovata romanitas del secolo precedente.
Per dare il senso del cambiamento introdotto da Nicola è stato
più volte fatto il nome di Dante: e non solo perché si può
dire che con lui nasce la nuova lingua romanza nelle arti
figurative, ma anche perché il complesso concatenarsi tra
elemento singolo e struttura, la continua presenza di un tono
poetico unificante, fanno delle sue creazioni un vero “poema
sacro”. Nella nuova lingua di Nicola la ripresa dell’antico
non sta solo nella conoscenza e nella citazione delle forme,
ma nella ritrovata attenzione al dato naturale, nella capacità
di adattare il ritmo della narrazione alla situazione.
A Pisa i due scultori-architetti, Nicola e Giovanni Pisano,
lasciarono anzitutto i due pulpiti, del Battistero e della
Cattedrale, ma ebbero anche la responsabilità di proseguire
la fabbrica del Battistero nel secondo ordine, ricco di busti
e di danzanti figure. A Giovanni, al suo collega Tino di Camaino
e ai loro collaboratori vennero affidati anche gruppi scultorei,
altari, sepolcri e tabernacoli per la cattedrale, per il Camposanto,
per la chiesa della Spina e per S. Michele in Borgo. E da
Pisa partono scultori e opere per la Catalogna come per la
Lombardia; da Pisa parte Tino di Camaino, per continuare la
sua opera a Siena e soprattutto a Napoli, mentre Arnolfo da
Cambio insedia stabilmente il nuovo linguaggio a Firenze e
Roma. Né tutti questi scultori si limitavano a creare in marmo:
sempre più numerose emergono da attenti restauri le loro sculture
lignee, mentre le argentee placchette della “cintola” (un
fascia con cui si cingeva la Cattedrale nei giorni di gran
festa) ne attestano la capacità di orafi.
Intanto, a Firenze nasce e si consolida, non senza guardare
alla scultura dei pisani, la nuova pittura di Giotto, così
come da Siena si diffonde la nuova lingua di Simone Martini.
Anche a Pisa, dove del resto lasciarono importanti opere,
entrambi trovano subito validissimi interpreti, ma la vera
risposta alle loro innovazioni viene ancora una volta da uno
scultore, Andrea Pisano. Lo si constata guardando le sue opere
pisane nel Museo di San Matteo, in dialogante e serrato confronto
con il polittico di Simone Martini e la Madonna dell’altro
senese Agostino di Giovanni, come in quelle che ha lasciato,
conteso com’era dai cantieri delle maggiori cattedrali, a
Firenze o Orvieto. Andrea vi esplora il mondo fisico e sentimentale
dell’uomo, costruendo euritmie lineari, semplificati e luminosi
volumi che rendono indimenticabili le sue creazioni. Il figlio
Nino ne accentua in senso affabile e cordiale il realismo
profano, in una gara di sottigliezze con i più raffinati maestri
d’Oltralpe che spesso egli vince sia nel polito marmo sia
nel più morbido legno. Come il padre, egli padroneggiò infatti
entrambi i materiali, ed è proprio nella scultura lignea che
Nino trova il suo più grande continuatore, Francesco di Valdambrino.
Con lui, ormai alle soglie del Quattrocento, il tempo sembra
fermarsi per Pisa: neppure il rivoluzionario polittico realizzato
da Masaccio per la chiesa del Carmine nel 1426 riesce a scalfire
il sonnolento ambiente locale, non aiutato nel risveglio dalla
crisi seguita alla prima conquista fiorentina avvenuta nel
1406. Quasi stordita dalle sue disgrazie, Pisa si ritrae dalle
correnti più avanzate e si rivolge nel secondo Quattrocento
ad artisti di buon livello ma non certo rivoluzionari, per
attestarsi poi su un equilibrato gusto per la semplificata
eleganza e didascalica evidenza. La nuova stagione di generosa
attenzione dei nuovi Signori al benessere della città conquistata
(o, per meglio dire, la decisione di migliorare l’economia
dello Stato favorendo le potenzialità di una città ormai non
più riottosa) le regala nella seconda metà del Cinquecento
uno dei testi cardine della politica figurativa medicea -
quella Piazza dei Cavalieri minutamente progettata nello spazio,
nei palazzi, nella chiesa, da Vasari e dallo stesso Cosimo.
Solo con la decisione di Pietro Leopoldo di fare di Pisa la
seconda sede della sua corte, la città si avvia ad una vocazione
cosmopolita, in un’orgia di sovreccitazione decorativa, di
lusso, di eleganza che favorisce sia l’ascesa di nuovi astri
locali - i Melani, i Tempesti che coprono di illusionistiche
decorazioni palazzi privati e pubblici, chiese e abbazie -
sia l’arrivo del fior fiore della pittura italiana del Settecento,
chiamata all’ambizioso progetto di rinverdire le antiche glorie
pisane (i guerrieri, i Santi, i Beati) sulle enormi tele che
vanno a foderare le pareti della cattedrale.
Resta tuttavia sensibile l’aura di decadenza rispetto all’eroico
passato, ma questo non fa che accrescere il fascino della
città e del suo Camposanto, divenutone una delle principali
glorie per la fantastica alternanza di mito, favola e natura
che si riconosceva nei suoi affreschi e nella sua atmosfera.
Da Pisa passano nel XIX secolo i più bei nomi della letteratura,
dell’arte, della filosofia: vi passano e vi soggiornano a
lungo, attratti, come Leopardi, da quel romantico “misto di
città grande e piccola, di cittadino e di villereccio”, o
dalla muta testimonianza di un tempo trascorso inesorabilmente,
come quel viaggiatore francese che la vide “quartiere deserto
di una grande città dell’Oriente”. Oggi forse la solitudine
umbratile da “città del silenzio” ha lasciato il posto ad
una fitta frequentazione, ma chi sappia scegliere ora e luoghi
potrà rivivere, come i poeti dell’Ottocento, l’esotica e gloriosa
Pisa medievale.
Clara Baracchini, Direttore
Beni Storico Artistici Soprintendenza di Pisa
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