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Uno sguardo oltre la
torre
di Aldo Canale |
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Il
ritrovamento del porto urbano non è solo una straordinaria
scoperta
archeologica.
È un evento liberatorio che riavvicina Pisa al mare e la riconcilia
con la sua storia. |
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Il ritrovamento
dell’antico porto urbano di Pisa, quella etrusca e romana, è
uno di quegli eventi archeologici destinati a lasciare un
segno profondo nella conoscenza della storia delle civiltà
mediterranee. Si è parlato (e se ne parlerà ancora e meglio
negli anni avvenire) di “scavo delle meraviglie” e, con
qualche esagerazione, della scoperta della “Pompei del mare”.
E non c’è dubbio che siamo di fronte ad uno di quegli svelamenti
improvvisi che solo l’archeologia ormai può regalarci. Una di
quelle incursioni nel passato remoto che, costringendoci a riscrivere
pezzi importanti della nostra storia, finiscono con l’incidere
non poco sul nostro futuro. Di
certo la scoperta del porto antico che abbraccia un intero millennio
(dal V secolo avanti Cristo al V dopo) è destinata a rinvigorire
e in parte a modificare l’immagine turistica di Pisa, una città
universalmente conosciuta per la sua Torre pendente e tuttavia
quasi oppressa da uno stereotipo turistico che nel tempo ha svolto
una funzione stravolgente della sua identità.
E mai come in questo
caso c’è di mezzo l’inconscio di una città che, incredibile a
dirsi, si trascina malinconie e malumori proprio a causa dei nodi
irrisolti della sua storia e di una brusca interruzione avvenuta
non ieri ma nel 1284 allorché la flotta di Genova, sbaragliando
quella pisana, mise fine ad un sogno di gloria che aveva le sembianze
di un progetto imperiale. Verrebbe voglia di dire - un po’ esagerando
e un po’ dicendo il vero - che ancora oggi i pisani non riescono
a farsene una ragione.
Colpa anche di un raffinato letterato
che risponde al nome di Rudolf Borchardt, molto noto nei primi
del Novecento, che nel 1932 scrisse un libro di intense nostalgie
guglielmine dal titolo Pisa, solitudine di un impero (Nistri-Lischi
editore) suggestivo quant’altri mai e straripante nel fervore
della sua immaginazione storica. Se ne consiglia la lettura, riforniti
di robusto spirito critico, ma dovendone proporre una qualche
sintesi si può parlare di una “concezione ideale di Pisa come
nucleo di un impero mondiale alla maniera antica”.
Borchardt ribalta lo schema che raffigura la Pisa ghibellina del
XII e XIII secolo come braccio armato e riferimento marittimo
degli imperatori svevi in Italia e nel Mediterraneo. Più che braccio
armato, egli dice, Pisa era il centro propulsore di un progetto
imperiale che certo aveva bisogno della grande potenza tedesca
ma che non poteva realizzarsi se non attraverso la consacrazione
di Pisa come sua capitale e centro spirituale.
La spiegazione sta tutta nella lettura
dell’originalità di Pisa la cui storia “così estranea al carattere
italiano - ecco la chiave di volta del pensiero di Borchardt -
non appartiene alla storia d’Italia” ma a quella di un “ideale
arco di mare” che praticamente si riassume nell’intero perimetro
mediterraneo.
Sappiamo che questo progetto (reale
o virtuale che fosse) non poté realizzarsi e comunque è un fatto
che la data canonica dell’inizio della decadenza di Pisa (appunto,
la disfatta della Meloria del 1284) è di poco posteriore alla
morte dell’imperatore svevo Federico I (1250) che di quel progetto
imperiale fu l’indiscutibile ma imperscrutabile interprete.
La visione di Borchardt, per quanto
forzata, si è rivelata talmente suggestiva e gratificante per
l’ego pisano da diventare essa stessa un pezzo della sua storia.
Per un popolo che ha subito per secoli il dominio di Firenze,
che ha battagliato aspramente con Lucca e malamente sopportato
la nascita e lo sviluppo del porto di Livorno, dare le spalle
all’entroterra toscano e sentirsi felicemente estrapolata dalle
rissose vicende dell’Italia comunale era una formidabile e consolatoria
via d’uscita dalla depressione maturata nel lungo tunnel della
decadenza. In realtà questa consolazione non
era, né poteva essere risolutiva.
Per alcuni aspetti accresceva il rimpianto e quindi la frustrazione
di non aver potuto realizzare un così ambizioso progetto storico.
Pisa a lungo si è lasciata descrivere come una città segnata dalla
“solitudine”, “solinga e silente”, “quasi deserta”, “l’ombra di
quella che era stata un tempo”.
E tutto ciò a dispetto dei suoi straordinari monumenti e di un
clima talmente salubre da riuscire a trattenere persino Giacomo
Leopardi. Il quale però per questo aveva bisogno
di scusarsi con una sua amica, scrivendole: “Temete che io mi
innamori troppo di Pisa, ma consolatevi che io sono fuori di questo
pericolo. Io non veggo pisani, non vo in nessun luogo se non a
passeggiare”. La “solitudine” in realtà era una forma di distacco e di estraniazione.
È in effetti un’espressione che ricorre così di frequente nei
diari dei cultori del grand tour da far pensare che i pisani abbiano
fatto del tutto, nel tempo, per distaccarsi dai lasciti di straordinario
valore artistico ed architettonico che l’antica potenza marittima
aveva riversato sulla città.
Non a caso la piazza dei Miracoli, che depone i suoi gioielli
(il Duomo, il Battistero, la Torre e il Camposanto) in un incomprensibile
tappeto verde, vive in uno splendido isolamento periferico, singolarmente
lontana dal centro moderno della città, non si sa se per essere
meglio conservati per il godimento dei turisti o per essere tenuti
invece a debita distanza da una vita quotidiana che ne vuole e
forse ne deve prescindere, Chissà.
Di certo tutto questo regala a Pisa
un fascino ulteriore e rende ancora più indimenticabile (ed intrigante)
una visita che non si voglia fermare in superficie e voglia penetrare
nei misteri di una città che ha suscitato grandi odi e grandi
amori. Ma volendo ragionare in termini
di identità di un popolo e di una cultura, non possiamo sottrarci
all’impressione che la scoperta del porto sembra destinata ad
avere un effetto liberatorio per la travagliata psicologia pisana.
Potrebbe aiutare a lenire sette secoli dopo le ferite aperte dalla
sconfitta della Meloria e liberare finalmente l’immagine turistica
della città dalla insopportabile dittatura della pendenza della
Torre. Quel ritrovamento, ha scritto mirabilmente
Stefano Bruni in un saggio del primo volume di Pisa nei secoli,
“ha permesso di aprire alcuni spiragli nella più antica vicenda
dell’insediamento di Pisa, togliendole quel carattere di città
antica senza antichità che l’apparente mancanza di vestigia archeologiche
le aveva conferito”. È come se Pisa avesse trovato di colpo, con la sua Pompei, le
radici profonde della sua storia che finora erano rimaste incredibilmente
occultate.
E sono radici che le danno natali nobilissimi nel cuore della
civiltà antica e che, ancora una volta, la riportano al mare,
quel mare che da essa si era inspiegabilmente allontanato.
È davvero una meravigliosa avventura
oggi provarsi a scrutare Pisa con occhi diversi, cercando di distinguere
il vero dal verosimile, la storia dalla letteratura, l’antico
dal moderno, l’ancestralità dei ricordi collettivi depositati
nell’inconscio dalla tranquilla razionalità della vita di tutti
i giorni.
Andando a Pisa potete sempre sgranare gli occhi di fronte alla
pendenza della Torre. Ma se volete conoscere davvero questa straordinaria città e guadagnarvi
l’attenzione dei pisani cercate di alzare lo sguardo e di vedere
se per caso il mare si delinea all’orizzonte.
Aldo Canale, giornalista ed editore
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