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Maledetta
meloria
di Renzo Castelli
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Brucia ancora la sconfitta
con Genova, sette secoli dopo. Forse è tempo di farsene
una ragione... Non sono il tifo
sportivo, né le tradizioni spesso un po’ posticce sospinte
dal turismo, a disegnare la vera anima di una città. Nel
caso di Pisa, la sua “pisanità”. In poche città, come
in questa, la storia, e quindi il passato remoto, hanno
lasciato un segno così marcato e condizionante. Pisa ha
troppa memoria - l’origine etrusca, la grandezza della
sua marineria - per dimenticare. Ecco perché ancora oggi
la Meloria non è soltanto il nome di una battaglia finita
in disfatta, una delle molte che l’uomo ha combattuto
in terra e sul mare, ma rappresenta la morte di una città-Stato,
l’umiliazione dei suoi cittadini. Con la Meloria (1284)
Pisa ha perduto l’orgoglio, i sogni, la regalità, e mai
più potrà dimenticare il perduto potere. La città-stato
ha chinato la testa, forse per sempre, e non dimenticherà
mai più. Pisa, che era stata (Rudolf Borchardt) “un impero
di vele”, resta nei secoli dei secoli una città sconfitta,
umiliata, delusa. Pisa, ovvero l’orgoglio ferito. Non
fu solo la Meloria a scavare il grande solco che proietta
la sua ombra fino a noi. Ai 12 mila morti della battaglia
che cancellarono l’anima della grande città-stato, si
aggiunsero i 6mila prigionieri portati in catene nel carcere
genovese del Modulo che provocarono una crisi demografica
che parve irreparabile. “Questa situazione - precisa lo
storico Emilio Tolaini - determinò un forte incremento
immigrativo dal contado che consentì di ricostruire in
qualche modo la rete dei traffici”. Ma il ritorno ad una
seminormalità non fu vera gloria: appena un secolo dopo,
infatti, i fiorentini compreranno Pisa e il suo porto.
Se è vero che ogni città ha un’anima propria che è la
risultante delle anime di coloro che vi hanno sempre vissuto,
molti concordano nel dire che Pisa conserva ancora una
scontrosità che è figlia della sconfitta più bruciante.
Scontrosa, dunque, e superba: così la giudicò Borchardt
nel secolo scorso, e il giudizio resta attuale. Per questi
motivi, nell’effervescente e inventiva Toscana, nella
blasfema Toscana, Pisa si colloca con caratteri diversi
da ogni altro campanile. La “pisanità”, ancora oggi, significa
diffidenza perché diffidenza è figlia dell’orgoglio ferito.
Non a caso Curzio Malaparte, nel disegnare i suoi Maledetti
Toscani, glissò del tutto su Pisa. Confesserà: “Non li
capisco, questi pisani. Hanno un carattere sfuggente,
insincero. Sembra quasi che debbano farsi perdonare qualcosa.
Ma cosa?”. La risposta sarebbe stata la stessa di oggi:
farsi perdonare di avere perduto. Eppure Malaparte adorava
Pisa, i suoi silenzi notturni ma anche il vociare degli
studenti, la straordinaria bellezza dei marmi e l’Arno
che fluiva al mare. Anche se di quel fiume preferiva le
burrasche e il ghiaccio dell’inverno perché la “torba”
voleva dire l’ingresso in Arno delle cèe. E per un piatto
di cèe consumato in piazza Garibaldi, nell’osteria di
Nilo Montanari, Malaparte avrebbe dato l’anima. (Non sapete
cosa sono le cèe? Non possiamo spiegarvelo: venite a Pisa
e capirete). E con l’oste amico, Malaparte si confidava:
“Siete una razza strana, ma cucinate bene”.
Dante provvide a suo tempo e con una certa efficacia a
denunciare l’orribile colpa dei pisani. Dopo la Meloria,
il conte Ugolino della Gherardesca, ritenuto responsabile
per imperizia o per tradimento di quella sconfitta, fu
rinchiuso, fino a morire di fame, con i figli ed i nipoti
nella storica torre di piazza delle Sette Vie (oggi, Cavalieri
di Santo Stefano). L’invettiva dantesca è forte, ma se
il sommo poeta avesse conosciuto il seguito avrebbe scritto
cose anche peggiori. Le ossa del conte Ugolino, infatti,
furono poi sotterrate in faccia al fiume sui lungarni
di Tramontana e quel terreno restò per sempre maledetto.
Chi oggi visiti Pisa e percorra i suoi lungarni, scoprirà
che la lunga teoria dei palazzi è interrotta, poco prima
della chiesa del Santo Sepolcro, da un giardino, l’unico
che si affacci sul lungarno. Ma non è un giardino, e non
è un cimitero: è terra maledetta. Perché i pisani non
dimenticano. Neppure oggi che le ossa del conte hanno
trovato pace - si spera - nel convento di San Francesco,
su quel terreno non sarà mai consentito di costruire niente.
No, Pisa non può essere considerata una città “normale”,
come bene intese Malaparte. Dice il professor Silvano
Burgalassi, sociologo e massimo cultore dell’anima pisana:
“Pisa vive del passato e non riesce ad esprimere i valori
di arte, di spiritualità, d’intelligenza dei quali pure
è portatrice. È una sorta di freno, quasi di maledizione
della quale non sappiamo liberarci. Oggi non potremmo
più fare la piazza del Duomo o i lungarni perché mancherebbe
la capacità d’ispirazione che ebbero i pisani prima della
Meloria, quando dominavano i mari e vedevano in questa
loro missione qualcosa di divino che dovesse essere degnamente
celebrato. Da allora, l’anima pisana è malata di orgoglio
ferito e non è capace di esprimere una profondità di pensiero
che sia in sintonia con i propri tempi”.
Eppure Pisa oggi avrebbe tanto di cui vantarsi. Ha tutti
i requisiti per essere una città felice: un clima mite,
il mare a dieci chilometri, la collina a sette, la montagna
per lo sci a meno di un’ora; ha una posizione baricentrica,
un aeroporto internazionale, un porto (il “porto di Pisa”,
che alcuni chiamano Livorno) a 20 chilometri; ha tre università
prestigiose e uno dei più grandi nuclei nazionali del
Cnr, infine ha musei e monumenti che tutto il mondo ci
invidia. Ma non è una città felice.
Quanto dovrà passare perché Pisa ritrovi la sua serenità,
dimentichi la sua sconfitta e il suo impero perduto, perché
la “pisanità” diventi finalmente un sentimento positivo?
Nessuno può dirlo. Ma non sarà certo il folklore a guarire
l’orgoglio ferito. I pisani contemporanei hanno in uggia
quel falso folklore che simula, una volta all’anno, i
fasti di una repubblica marinara che non c’è più. Anzi,
considerano quella regata un po’ blasfema, un confronto
di muscolosi atleti che non ha il diritto di evocare il
fasto di un’epoca.
Eppure la “pisanità” malata, questo umore scontroso, questo
malessere del presente, sfugge spesso ai visitatori. Se
Malaparte fu diffidente di Pisa e dei pisani, altri visitatori
trovarono invece una grande serenità nei silenzi della
città, nel suo pathos.
Scriveva Elizabeth Barrett: “Pisa, ecco una delle piccole,
deliziose città del silenzio. Strade sonnacchiose dove
cresce l’erba fra pietra e pietra, dove ruzzano nella
solitudine gruppetti di ragazzi”. Vista dagli altri, Pisa
può veramente apparire così, tenera e silenziosa più che
altera e scontrosa. E allora, per animi tormentati, Pisa
può essere l’ideale: se il suo orgoglio ferito non traspare,
resta intatta quella profumata aurea da oasi che si respira
nelle strade e nelle piazze, tanto che Shelley poté trovare
l’ispirazione per comporvi l’elegia In morte di Keats
e Leopardi scrivere in una notte di aprile, profumata
di glicine, la poesia A Silvia.
Renzo Castelli, giornalista e scrittore
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