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L’arte
della memoria
di Clara Baracchini
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Un grande patrimonio
monumentale finalmente restaurato.
Luogo capitale dell’arte italiana, meta irrinunciabile
per ogni viaggiatore sette-ottocentesco, esperienza formativa
per poeti e pittori che vi riconoscevano l’immagine emblematica
della civiltà medievale, il Camposanto Monumentale ha
visto la sua fortuna appannarsi nel corso dell’ultimo
secolo, colpito da un oggettivo depauperamento cui solo
ora si sta finendo di porre rimedio, dopo lunghi anni
di restauro.
Il Novecento non è stato
infatti un secolo felice per questo singolare edificio,
concepito nel 1277, a mezza strada tra chiesa-reliquiario
e chiostro, per accogliere nella navata centrale scoperta
la “terra santa” portata dalla Palestina al tempo della
seconda crociata: in questo prezioso, santo campo - un
luogo, per dirla con le parole dell’arcivescovo del tempo,
ampio e decoroso, appartato e chiuso - dovevano essere
ricoverati i sarcofagi di età romana, reimpiegati come
sepoltura per i pisani illustri e fino a quel momento
disseminati attorno alla Cattedrale, mentre sotto il pavimento
delle navate laterali (o, se si vuole, dei corridoi del
chiostro) potevano aprirsi più umili sepolture.
Edificazione e, per buona
parte, decorazione, hanno luogo nel Trecento, l’ultimo
grande secolo di Pisa prima della sua sottomissione a
Firenze: sulle pareti si susseguono grandi scene affrescate
a illustrare la Vita e la Morte, Terrene ed Eterne, prediche
dipinte dai migliori artisti del momento (non ultimo quel
Buffalmacco amico del Boccaccio e personaggio di sue spassose
novelle), scene destinate all’occhio del corpo e della
mente, in assonanza e associazione con le prediche declamate
da Domenico Cavalca.
Si aggiunsero poi,
per mano dei migliori artisti del momento, le Vite dei
Santi Pisani e le Storie del Vecchio Testamento, completate
nel secolo seguente da Benozzo Gozzoli.
Divenuto nel Cinquecento
luogo di elezione per i sepolcri dei più illustri docenti
dell’Ateneo Pisano (ma anche di membri della famiglia
Medici), l’edificio si avvia a divenire Pantheon delle
memorie pisane: delle persone e delle famiglie, ma anche
del glorioso passato classico e medievale della città.
Nasce così la vocazione
museale del Camposanto: i suoi muri si coprono di epigrafi
romane, i sarcofagi, ormai visti non più come sepolture
ma come preziosi documenti di storia e di arte, vengono
spostati dal “campo” ai corridoi e, agli inizi del XIX
secolo, l’edificio è scelto per ospitare uno dei primi
musei pubblici europei ordinatovi dal suo conservatore,
Carlo Lasinio. Le sculture antiche, medievali e moderne,
disposte nei corridoi (ormai chiamati “gallerie”) continuarono
a convivere per tutto l’Ottocento con i sepolcri, riservati
però agli “spiriti magni”, per creare un luogo deputato
alla celebrazione patriottica e insieme alla meditazione
sulla morte, come perdita non solo privata ma sociale
e politica - lo svanire delle antiche glorie e civiltà.
Il Camposanto dunque,
per questa unica mescolanza di stili e di epoche, per
il fascino melanconico che gli deriva dalla sua stessa
vocazione cimiteriale, viene a godere di una crescente
fortuna: nei suoi affreschi si avverte, con Coleridge,
“il maestoso sorgere della pittura”; per Leo Klenz, architetto
di Luigi di Baviera, come il Partenone riassume in sé
la civiltà greca, così il Camposanto è simbolo di quella
italiana.
Ma questo mito europeo
viene spezzato all’inizio del Novecento: prima, da una
vera tempesta museografica (la creazione di un Museo Civico
comporta la decurtazione del nucleo ordinatovi da Lasinio,
mentre l’eccelsa galleria della statuaria ottocentesca
viene allontanata per restaurare la purezza medievale
del monumento); poi, dagli eventi bellici del 1944, con
l’incendio del tetto, le campagne di stacco degli affreschi,
il loro restauro affannoso e sperimentale e, a partire
dagli anni Ottanta, il ripresentarsi del degrado che costringe
al ricovero degli illustri pazienti.
Oggi il Camposanto sta
rinascendo: mentre le sinopie dei suoi celebrati affreschi
si possono vedere nel museo ad esse dedicato, le collezioni
archeologiche raccoltevi da Lasinio al Museo dell’Opera
del Duomo e le sculture medievali al Museo Nazionale di
S. Matteo, dietro la spoglia parete di marmo in cui si
apre l’ingresso il visitatore accorto troverà nuovamente,
e restaurate, le sculture ottocentesche, ricomposti sarcofagi
e monumenti, ricollocati sulle pareti i primi affreschi:
un’immagine ritrovata, che si accosta alla luminosa fortuna
e al profondo significato di questo monumento nella storia
dell’arte e della cultura europea.
Clara Baracchini
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