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La bocca non sollevò dal
fiero pasto
di Gaetano Savatteri
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Un’accurata
ricostruzione del celebre episodio della “torre della Fame”
lascia seri dubbi sull’attendibilità della versione dantesca.
Una
pergamena sbiadita, dai caratteri illeggibili. Le ossa sparpagliate
di cinque cadaveri, custodite in una chiesa di Pisa. Antichi
documenti manoscritti e modernissimi esami di laboratorio,
analisi del Dna e accertamenti medico-legali.
Ecco gli elementi del mistero. Gli indizi sparsi da qualche
sapiente scrittore di thriller per chiarire o forse confondere
ancor di più un enigma vecchio di settecento anni.
Già,
perché qui si parla di un’inchiesta su una morte violenta.
Anzi, su una vera strage, su una fine spaventosa che ha tutti
i caratteri dell’omicidio plurimo: la morte di Ugolino della
Gherardesca, che concluse i suoi giorni nella Torre della
Muda assieme a due figli e a due nipoti.
Testimone
chiave è Alighieri Dante, nato a Firenze, di professione poeta.
In realtà testimone ambiguo, forse di parte, non sempre affidabile,
ma comunque in quest’inchiesta la sua parola conta e pesa.
È lui, infatti, l’Alighieri che al trentatreesimo canto dell’Inferno
nella sua Divina Commedia apre con una scena raccapricciante
il suo fantastico incontro con Ugolino, chino a rosicchiare
la nuca dell’arcivescovo Ruggieri: “La bocca sollevò dal fiero
pasto / quel peccator, forbendola a’ capelli / del capo ch’elli
avea di retro guasto”.
Avvio
famoso, immortale e sonoro, come quando durante l’esecuzione
di un’opera, dice Vittorio Sermonti nel suo commento, “il
violoncello introduce il tema di una romanza indimenticabile”.
Le terzine dantesche si snodano cariche di dolore e pena,
di magnificente crudeltà.
Cibandosi
del suo carnefice - l’arcivescovo pisano Ruggieri che nell’inverno
1289 fece sigillare definitivamente la prigione nel quale
il conte Ugolino era stato rinchiuso con i figli Gaddo e Uguccione,
con i nipoti Nino detto il Brigata e Anselmuccio, condannandoli
alla morte per fame - Ugolino ripercorre lo strazio di veder
morire i suoi eredi, fin quando “poscia, più che ‘l dolor,
potè ‘l digiuno”. Anche questo un verso ambiguo, carico di
sinistri significati, nei quali alcuni vi hanno letto allusioni
al cannibalismo: ennesimo mistero che appassionò perfino Jorge
Luis Borges.
Tutta
pisana la tragedia di Ugolino, tutta antipisana la chiusa
dell’episodio con l’invettiva di Dante contro Pisa, “vituperio
de le genti”, nido di tradimento e di ferocia, alla quale
il poeta augura di restare annegata e sommersa dalle acque
dell’Arno. Insomma, l’impressione è che tutto il canto, l’intera
costruzione del personaggio di Ugolino, alcune sottili omissioni,
servano a Dante Alighieri per scatenare la sua maledizione
contro Pisa e i pisani.
Una
decina d’anni fa, i pisani portarono alla sbarra il conte
Ugolino, per vedere se fosse realmente quella vittima descritta
da Dante. “Il processo si risolse con un’assoluzione a metà,
una condanna a metà”, spiega Maria Luisa Ceccarelli Lemut,
docente di Storia medievale all’università di Pisa. “Il conte
Ugolino non era uno stinco di santo. Nella sua interpretazione
poetica Dante non dice che aveva settant’anni, che i figli
erano due uomini adulti, non spiega che il nipote Nino il
Brigata, dal soprannome significativo, era un venticinquenne
già responsabile di un omicidio. E Anselmuccio aveva vent’anni,
per i tempi un uomo fatto. La morte di Ugolino e dei suoi
familiari fu atroce, ma il conte di Donoratico ha le sue colpe
così come i suoi meriti”.
La
ricostruzione storica, fatta su documenti dei cronisti dell’epoca,
restituisce la figura di un aristocratico altezzoso e superbo,
a capo di un clan. Aveva mosso guerra a Pisa, forse aveva
speculato sulla mancanza di frumento, rifornendo la città
dai suoi granai maremmani. È accusato di avere agevolato la
disfatta di Pisa per mano dei genovesi nel 1284, poi riuscirà
a farsi eleggere podestà della città, infeudando la repubblica.
Insomma, a torto o a ragione, contro di lui lievitano rancori
che si risolveranno nella condanna a morire d’inedia nella
Torre della Muda, da allora in poi ribattezzata Torre della
Fame. Figlio
del suo tempo, di lotte politiche aspre e violente, di raggiri
e tradimenti, di risentimenti guelfi e ghibellini, Ugolino
della Gherardesca non è una povera vittima; d’altra parte,
nell’Inferno lo sbatte Dante con il suo carnefice, ben sapendo
qual è il suo passato, cupo d’ombre.
Tanti dubbi, molti sospetti. Al punto che c’è da chiedersi
se veramente il conte Ugolino e i suoi familiari abbiano fatto
la fine raccontata da Dante. Se omicidio plurimo fu, allora
è giusto indagare. E nell’inverno del 2001 un team di studiosi
dell’Università di Pisa, coordinato da Francesco Mallegni,
ordinario di scienze archeologiche, si è messo alla ricerca
dei cadaveri, o almeno di quel che restava.
L’inchiesta storica e scientifica, promossa dal Comune e dalla
Provincia di Pisa, ha permesso di individuare i resti. In
una cappella della chiesa di San Francesco a Pisa. Ma quelle
ossa e quei teschi sono veramente quelli di Ugolino, Gaddo,
Uguccione, il Brigata e Anselmuccio? Dentro una custodia metallica
una pergamena sbiadita, con la data del 1928. Quasi illeggibile.
Ma un giornalista riuscirà a trovare la copia di quel testo
pubblicato su un periodico fascista proprio nel 1928, quando
quei resti furono prelevati e poi rimessi al loro posto. E
il testo coincide, nei punti decifrabili. Riporta la cronaca
di una precedente traslazione, risalente al 1899, e attesta
l’autenticità dei resti: “Le ossa qui racchiuse appartengono
con certezza ai corpi del conte Ugolino e de’ suoi figli e
dei nipoti morti nella Torre della Fame…”.
Per
due anni, esperti e scienziati hanno studiato e misurato ogni
dettaglio di quelle ossa, per avere certezze. Hanno stabilito
che il più anziano aveva oltre settant’anni, un fisico imponente,
un’altezza superiore alla media. Caratteristiche che ritornano
anche nei resti degli altri due soggetti - probabilmente i
figli di Ugolino - di età compresa tra i 45 e i 50 anni, anche
loro due specie di colossi. Il terzo e il quarto cadavere
appartengono a due uomini più giovani. Basterebbe questo a
dare conferma. Ma gli studiosi vanno avanti. L’esame del Dna,
al quale partecipa anche un tecnico del Reparto di investigazioni
scientifiche dei carabinieri, permette di stabilire parentele
e affinità. Altra conferma.
Ma
cosa raccontano questi resti? Fulvio Bartoli, che ha studiato
la dentatura, sostiene che effettivamente nei loro ultimi
anni questi cinque uomini erano stati sottoposti a una dieta
alimentare molto povera, da carcerati. Insomma, a pane e acqua,
per dirla in breve. E quanto all’ipotesi che Ugolino abbia
potuto cibarsi della carne dei figli (Ricordate? “Più che
‘l dolor, potè ‘l digiuno”), l’analisi sembra escluderlo.
Le
condizioni di Ugolino sono tali da far ritenere che sia morto
per primo, e la sua dentatura era così mal ridotta da ritenere
improbabile che abbia potuto trasformarsi in cannibale. E
poi un altro dubbio: alcuni segni di ferite di arma da taglio,
sulle ossa, fanno addirittura pensare che sui corpi qualcuno
abbia infierito. Forse dopo la morte. Oppure no. Resiste l’ipotesi
che un boia caritatevole abbia dato il colpo di grazia ai
cinque prigionieri ormai ridotti allo stremo.
Ma è chiaro che, alla fine di questo studio - pubblicato nel
2003 dalle edizioni Plus-Università di Pisa con il titolo
Il conte Ugolino della Gherardesca tra antropologia e storia,
a cura di Francesco Mallegni e Maria Luisa Ceccarelli Lemut
- torna in luce il vero imputato, il sospettato numero uno:
Dante Alighieri. Fu la sua falsa testimonianza? Non proprio,
non del tutto. Certo, quel verso che allude al padre che si
ciba dei figli è sottilmente perfido. E forse ha ragione lo
scrittore argentino Borges che, dopo avere esaminato le varie
tesi, conclude: “Dante ha voluto che pensassimo che Ugolino
(l’Ugolino del suo Inferno, non quello storico) abbia mangiato
la carne dei suoi figli? Arrischierei questa risposta: Dante
ha voluto non che lo pensassimo, ma che lo sospettassimo.
L’incertezza è parte del suo disegno”.
Gaetano
Savatteri, giornalista e scrittore
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