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Che farne d’un grande
passato?
di Marco Tangheroni |
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Pisa si interroga sul suo futuro, riscoprendo le sue
origini e rileggendo la sua storia.
Oggi, negli ultimi dieci anni, archeologi fortunati e
bravi, hanno, a quanto pare, definitivamente svelato
il mistero delle origini di Pisa che appassionò
geografi antichi, eruditi moderni, storici del
Novecento: la città non ebbe origini liguri o greche,
bensì etrusche; e fin dagli esordi legate al mare.
Così, la grande espansione medievale cessa, in una
certa misura, di essere una parentesi storica, per
quanto plurisecolare e gloriosa, ma appare il vertice
di un destino iscritto nei geni di Pisa e dei Pisani.
L’acqua, che poteva essere presenza mortale con le
lagune costiere e i vasti stagni paludosi circostanti
popolati di anofeli, fu utilizzata per assicurare
sicurezza difensiva a uomini e navi, mentre i fiumi,
governati e navigati, esaltavano la funzione di centro
di collegamento tra la Toscana e il Tirreno prima e
poi il Mediterraneo, in una prospettiva sempre più
vasta.
Un ruolo mai del tutto dimenticato. Anche all’inizio
del Medio Evo, quando, crollate le istituzioni civili
e militari dell’impero di Roma, il commercio
mediterraneo si andava rarefacendo, una lettera di
papa Gregorio Magno del 603 ci informa che i Pisani
(non più governati dai Bizantini, non ancora
sottoposti ai Longobardi) erano pronti a muovere con
le loro sottili navi da guerra verso coste da
saccheggiare; né l’inviato del papa era riuscito a
farli desistere.
Dalle poche notizie documentarie giunte fino a noi,
pare probabile che Pisa abbia conservato nei secoli
successivi, anche se per un’attività che non andava
oltre il piccolo cabotaggio tirrenico, capacità di
costruire imbarcazioni e di andar per mare (il
know-how, insomma) che furono poi, a partire dalla
seconda metà del X secolo, all’origine di una
espansione che ha del prodigioso.
Talora da sola, talora sostenuta da Genova, la futura
rivale, Pisa portò le sue navi e i suoi guerrieri
vittoriosi in Sardegna, a Palermo ancora musulmana,
contro le principali città della costa nordafricana,
alla prima crociata (e se è vero che la grande flotta
di 120 navi guidata dallo stesso arcivescovo Daiberto
arrivò tardi di qualche giorno per partecipare alla
presa di Gerusalemme, fu poi decisiva per assicurare
il controllo marittimo delle coste e dei
collegamenti), infine nella grande impresa balearica
che portò alla conquista di Maiorca. Dopo questa data
(1115) gli slanci guerrieri parvero acquietarsi e i
Pisani, pur mai del tutto dimentichi di una certa
propensione alla guerra di corsa, preferirono mettere
a frutto le buone condizioni ottenute dai sovrani
musulmani e cristiani per commerciare in tutti i porti
più importanti del Mediterraneo.
Non a caso il più grande matematico dell’Occidente
medievale fu Leonardo Pisano (o Fibonacci), chiamato
dal padre a Bugia (oggi Bedijaha in Algeria) fin da
bambino per esservi educato dai sapienti arabi; e qui,
appassionatosi alla nuova matematica dei “numeri
indiani” e dello zero, approfondì il suo sapere nei
viaggi per affari e per politica: in Egitto, in
Terrasanta, a Costantinopoli, in Sicilia, in Provenza.
Sì che mi è parso giusto talora dire che se Galileo
poteva anche esser nato altrove senza che la sua vita
ne fosse troppo mutata, Leonardo invece non poteva che
essere pisano.
Di orgoglio i Pisani dell’epoca ne avevano tantissimo.
Già una cronaca veneziana dell’anno 1100 scrive che
“essi si comportavano come fossero i padroni del
mondo”. Avevano i Romani come esempio da superare; e
se comparavano le loro guerre antisaracene a quelle da
essi combattute contro i Cartaginesi, esaltarono la
loro imponente nuova cattedrale come “un tempio di
bianco marmo più meraviglioso di quelli antichi”. Alla
metà del XII secolo il geografo arabo al-Idrisi,
scrivendo per il re normanno Ruggero, così la
descriveva: “È una delle metropoli dei Rûm; celebre è
il suo nome, esteso il suo territorio; ha mercati
fiorenti e case ben abitate, spaziosi passeggi e vaste
campagne abbondanti d’orti e di giardini e di
seminagioni non interrotte. Il suo stato è possente, i
ricordi delle sue gesta terribili; alti ne sono i
fortilizi, fertili le terre, copiose le acque,
meravigliosi i monumenti. La popolazione ha navi e
cavalli ed è pronta alle imprese marittime sopra gli
altri paesi. La città è posta su di un fiume che ad
essa viene da un monte dalla parte della Langobardia.
Questo fiume è grande ed ha sulle sponde mulini e
giardini”.
Attorno alla grande chiesa cupolata, dedicata alla
Vergine Assunta, protettrice di Pisa nel Medio Evo,
costruirono con il Battistero, il Campanile (che
sfiderà per secoli e secoli le leggi fisiche) e il
Camposanto, un complesso architettonico che, per la
sua compiuta capacità di esprimere ad altissimi
livelli l’essenza di una civiltà, è stato, non a
torto, paragonato all’Acropoli di Atene. Rudolf
Borchardt, finissimo letterato tedesco, scrisse bene
che “i quattro monumenti sono quattro incarnazioni
dello spirito di Pisa e tutti volgono l’un verso
l’altro i possenti volti enigmatici; e alla Toscana le
spalle”.
E di orgoglioso isolamento i Pisani finirono.
Tenacemente fedeli alla parte imperiale e ghibellina,
cui dai tempi di Federico Barbarossa si erano
strettamente e per sempre legati. Invano sperarono poi
in Federico II, in Manfredi, in Corradino, in Enrico
VII. Soli contro Genova sul mare, soli contro le città
guelfe della Toscana, soli contro la possente Corona
d’Aragona in Sardegna. Eppure, qualche giorno prima
della disfatta della Meloria, che nel 1284 segnò la
definitiva supremazia tirrenica di Genova, la flotta
pisana volle umiliare la città ligure con una pioggia
di frecce dalla punta d’argento. Ci furono, allora,
più di novemila prigionieri pisani a languire per anni
ed anni nelle carceri genovesi; tra essi un fine
letterato, Rustichello da Pisa, al quale un altro più
illustre carcerato, il veneziano Marco Polo, dettò in
francese quel libro poi volgarizzato come Il Milione.
Dopo la conquista fiorentina del 1406 gran parte del
ceto dirigente pisano emigrò, soprattutto in Sicilia:
fu in quel regno che famiglie come gli Alliata, i Raù,
i Da Settimo, i Galletti, trovarono onori principeschi
e cariche politiche. Quando con i granduchi Pisa
passerà da città soggetta e a lungo ribelle a centro
culturale del nuovo stato, il ceto dirigente che si
riformò fu legato piuttosto o alle proprietà agrarie o
all’università. Anche se - pur condivise con Livorno
ormai in pieno sviluppo - nuove glorie erano riservate
alla vecchia città marinara: in essa furon collocate
la sede e gli arsenali dell’Ordine dei Cavalieri di
Santo Stefano, le cui galee eran destinate a
combattere i Turchi per mare. Come testimonia la
piazza creata per il nuovo Ordine dal genio
urbanistico di Giorgio Vasari; quella piazza dei
Cavalieri che è tra le più belle e armoniose d’Italia
(sol che magari si decidessero a toglierle
l’improvvida asfaltatura...).
Ecco, questo intervento è un esempio delle difficoltà
che ha Pisa a valorizzare le sue bellezze
urbanistiche, architettoniche e paesaggistiche: una
incredibile serie di chiese e monasteri romanici, le
case torri sopravvissute a trasformazioni e
bombardamenti, le dolcissime curve dei lungarni, la
quattrocentesca piazza del mercato, i colori di certi
tramonti verso il mare.
Colpa del turismo di massa che si limita alla Piazza e
alla Torre? O anche dei Pisani i quali paiono afflitti
da una strana malattia che qualcuno ha definito
pisaggine: come di gente che n’ha viste troppe e ora
non confida più nelle proprie possibilità di essere
degna, in modi nuovi, del proprio grande passato. Ogni
cosa da affrontare non è forse un lavorone? Ovvero non
capita in un momentaccio?
Marco Tangheroni, professore ordinario di Storia
Medioevale dell’Università di Pisa |
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