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Il sacro
legume a testa d’ariete
di Giorgio e Caterina Calabrese
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Il cece è un alimento nobile e popolare al tempo stesso.
Appartiene alla storia, oltre che alla cultura pisana
dell’alimentazione.
Si narra che nel 1284 durante la battaglia della Meloria
i pisani furono catturati dai genovesi e da questi furono
trattenuti a lungo prigionieri nelle stive delle loro
navi: sarebbero così morti di fame.
La
fortuna volle però che proprio nelle stesse stive,
sotto di loro, vi fossero ammucchiati sacchi di ceci
intrisi d’acqua di mare, per superare i terribili
morsi della fame se ne cibarono, scampando così alla
morte. In onore di questo
salvataggio provvidenziale, un tipico piatto a base di
ceci, la cecina appunto, fu chiamato anche l’oro di Pisa. Il piatto è semplice:
farina di ceci, acqua, sale e olio, il tutto cotto in
enormi teglie nei forni a legna.
Il cece (Cicer arietinum) è un legume tra i più antichi
conosciuti. Sembra sia originario da due diverse specie
spontanee (C. echinospermum e C. reticulatum) del sudest
della Turchia.
In alcuni scavi ad Hacilar
in Turchia sono state ritrovate alcune forme selvatiche
di Cicer risalenti a 5000 anni a.C. Nell’età del Bronzo
(3300 a.C.) in Iraq si sono trovate prove di coltivazioni.
In Egitto addirittura tracce scritte registrerebbero la
presenza del cece nella valle del Nilo tra il 1580 ed
il 1100 a.C.
Il termine Cicer deriverebbe
dal greco kikus che significa forza, potenza; con ogni
probabilità ciò è da ascrivere alle proprietà afrodisiache,
ed al grande potere nutritivo, attribuiti al legume. Ai
tempi di Omero in Grecia era chiamato Erébintos o anche
Krios con riferimento alla testa d’ariete: infatti il
nome arietinum usato per primo da Columella, poi da Plinio
e ripreso la Linneo nelle sue classificazioni botaniche,
è da attribuirsi con ogni probabilità alla forma del seme
che sembra ricordare, appunto, una testa d’ariete.
I legumi hanno avuto
presso gli antichi romani un alto onore: quello di dare
il nome a molte famiglie nobili come la gens Fabia (da faba, fava), oppure la famiglia Calpurnia dei Pisoni famosi
per la congiura contro Nerone.
Il loro nome deriva da pisum, ossia piselli; dalle lenticchie abbiamo ancora
i Lentulo alla cui famiglia appartenne il console del
58 a.C. che tanto si prodigò per il caro amico Cicerone
affinché tornasse dall’esilio.
Ed infine i ceci, l’argomento ora in questione, ossia Cicer: da questo sacro legume trasse il nome Cicerone,
nonché il grande Arpinate. Per la gens Tullia, la
famiglia di Marco Tullio, fu considerato un onore poter
assumere come suo cognomen quello di una pianta così importante.
La pianta ha un fusto
eretto alto circa 40-60 cm ramificato alla base, la parte
aerea della pianta è caratterizzata dalla presenza di
peli ghiandolari ricchi di un succo irritante perché ricco
di acido ossalico e malico.
I fiori sono di colore
bianco o rosa o violaceo.
I frutti sono legumi corti,
gonfi e rossastri contenenti due o tre legumi.Il cece occupa il terzo
posto nel mondo tra le leguminose da granella, dopo
soia e fagiolo, con una produzione di circa 9 milioni
di tonnellate; il continente maggiormente interessato
è l’Asia con il 91% della produzione mondiale.
In
Europa la caduta della coltivazione è cominciata nel
1950, in Italia da oltre 110mila ettari del 1950 si è
arrivati a poco più di tremila tra il ’92 ed il ’96
per risalire a oltre 4mila nel ’99.
Questa piccola risalita è da inquadrarsi nella rivalutazione,
in termini nutrizionali, degli alimenti vegetali dimenticati,
come i legumi appunto.
La nomea secondo la quale
il cece era un alimento capace di dare forza e potenza,
e proprio da questo significato ne traesse il nome affonda,
le radici nella verità: infatti il cece è un seme ricco
di principi nutritivi eccellenti.
Contiene il 63% tra carboidrati
e fibra, circa il 20-25% di proteine, e ancora calcio,
fosforo, ferro, vitamine e amminoacidi essenziali come
la tiamina, la riboflavina ed il triptofano.
Tutti elementi
in grado di garantire la vita anche in condizioni estreme,
come è accaduto, in illo tempore, ai nostri prigionieri
pisani citati poc’anzi. La versatilità del cece è dimostrata
dai molteplici usi che se ne possono fare. Intanto si
può partire dalle cime verdi della pianta che si possono
consumare lessate come i normali spinaci (è una consuetudine
molto sfruttata in India). Dalle foglie si
ottengono decotti rinfrescanti.
Una
curiosità: mentre, come stiamo vedendo, anche parti
della pianta come germogli e foglie sono adatti
all’alimentazione umana, la ricchezza di acidi
organici nella pianta stessa ne limita l’uso come
foraggio animale, la paglia viene utilizzata
specialmente come lettiera, mescolata alla paglia di
cereali. Può
essere consumato tal quale sia quando è verde, appena
raccolto; si consumano generalmente crudi anche come
merenda (forse non più tanto ai nostri giorni grazie
alle diverse, ghiotte e pesanti offerte delle
industrie dolciarie), sia essiccato. Essiccati possono
essere consumati tal quali come cotiledoni decorticati,
tostandoli si ottiene un surrogato di caffè, oppure si
riducono in farina. La farina mescolata a farina d’orzo
dà la cosiddetta farinella.
La stessa farina mescolata
ad altre farine, come quella di arachide o di sesamo,
è utilizzata per la preparazione di alimenti bilanciati,
ossia la mescolanza permette di aumentare il valore biologico
del cece; infatti pur avendo alcuni acidi essenziali è
carente di metionina e triptofano.
Sempre con la farina si ottengono dei piatti simili ma
dal nome diverso da regione a regione come ad esempio
la nostra cecina, oppure panelle a Palermo, o ancora farinata
in Piemonte.
Interessante è notare come il cece germinato
sia in grado di raddoppiare il suo contenuto di vitamina
C rispetto ai ceci dormienti e quindi può essere impiegato
nei casi di carenze vitaminiche: lo potremmo definire,
in questo caso, un integratore naturale. Recentemente si
è parlato di un aspetto benefico derivante da una dieta
a base di ceci, ossia un effetto ipocolesterolemizzante.
Questo effetto può essere “agevolmente neutralizzato”
aggiungendo alle preparazioni burro o altri ingredienti
animali capaci di innalzare il colesterolo.
Giorgio e Caterina Calabrese, docente di Dietetica
all’Università Cattolica Sacro Cuore di Piacenza e Tecnologa
alimentare della ristorazione
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